andrea boffetta
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2007.

Yerevan. Forse è solo la mia percezione: i nasi e le orecchie sono sproporzionatamente grossi. Come se gli armeni fossero delle caricature viventi. Il primo impatto con tali nasche e padiglioni mi ha lasciato interdetto; in un secondo momento ho iniziato ad intravedere origini lontane e miscugli etnici vari: greci, mongoli, persiani, ottomani, russi ed altro ancora che io non riesco a decifrare. I sorrisi sono sovente pieni di denti d’oro, l’eleganza è quella che noi consideriamo ‘moda da ganster’ e le panze sono spesso immense. Gli uomini si atteggiano a veri machos, le donne copiano spietatamente la nuova musa mondiale, Paris Hilton. Secondo i miei limitati codici estetici è tutto talmente esagerato che non riesco a trattenermi: mi innamoro!
Yerevan. Il ricco e vicino occidente viene riprodotto in ogni angolo della città. Se si parla di tecnologia i nomi devono sembrare tedeschi; se si tratta di moda bisogna raddoppiare qualche consonante perchè sembri italiana; se si recita la parte del globaltrotter è indispensabile avere un marcato accento americano e mescolare parole di diverse provenienze linguistiche. Tutto il mondo è paese.
Yerevan. Ci si alza la mattina guardando il monte Ararat, 5126 mt di altezza sul livello del mare. La leggenda vuole che sia la montagna dove si è arenata l’arca di Noè dopo il nubifragio. È il simbolo nazionale anche se oggi si trova in territorio turco. Il filo spinato evita contatti fra i due paesi: non c’è frontiera. Ufficialmente non esiste alcun problema fra i due vicini. Nessun contatto, nessun problema. ‘Un turco può essere simpatico, ma in gruppo diventano pericolosi come un branco di lupi’ quest’uomo che mi sta difronte è il primo che parla chiaro. Da quando sono entrato in Caucaso ho una strana sensazione: nessuno parla apertamente male dei propri vicini, nessuno mi dice esplicitamente quello che pensa, ma, mia sensazione, esiste un vero astio verso i confinanti. Effettivamente la situazione politico-economica della regione è tutt’altro che tranquilla. Le risorse economiche non ancora sfruttate, gli oleodotti, la crescente importanza strategica per la vicinanza con l’Asia centrale e le diverse religioni ne fanno una ‘zona calda’ del globo a cui sono interessate le due storiche potenze mondiali del secolo passato. Gli Stati Uniti appoggiano l’Azerbaijan, la Turchia e la Georgia; la Russia supporta l’Armenia, l’Iran ed il Turkmenistan. La tensione si percepisce ogni volta che il tema cade sui vicini.
Yerevan. L’ospitalità è totale: noi due italiani dormiamo in salotto e siamo serviti come dei principi. Personalmente mi risulta quasi imbarazzante: ‘è troppo, come potrò mai ricambiare?’ L’unica cosa da fare per non sgradire è entrare definitivamente nel ruolo del principe. Anche agli occhi delle ragazze della capitale siamo dei principi arrivati da lontano: loro ci fanno gli occhi dolci e noi paghiamo il conto al ristorante.
Yerevan. Lo stermino degli armeni da parte dei turchi ed il conseguente esodo è argomento complicato e difficile. Sono passati quasi cent’anni, eppure è una questione irrisolta che genera molta tensione in tutti coloro a cui propongo di parlarne. Rabbia, odio, nostalgia, tristezza ed impotenza: i loro occhi mi dicono più delle parole. Le stesse sensazioni che provo sedendomi fra le mura del monumento al genocidio. Silenzio interiore. Parole in Armenia e nel mondo per ricordare quella tragedia che fu; parole in Turchia che negano quel massacro. Solo Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, ha riconosciuto il genocidio armeno e curdo: 1.000.000 di armeni e 30.000 curdi. A causa di questa dichiarazione rilasciata ad una rivista svizzera nel 2005 lo scrittore turco è stato inquisito con l’accusa di offesa alla turchità.
Yerevan. Negli occhi degli anziani leggo nostalgia e rassegnazione. Penso non sia stato facile il secolo passato: il genocidio, l’esodo, il sogno comunista infranto e l’abbandono della Russia, il terremoto degli anni ‘90 e la povertà. Nelle pupille dei più giovani leggo una nuova grande Armenia proiettata nel futuro grazie all’unione degli armeni del Caucaso con i figli dell’esodo. La mia sensazione è che si sogni ad occhi aperti un ritorno in patria di tutti gli armeni dispersi nel mondo dal genocidio turco. Una nuova Armenia occidentale e capitalista. Kirk Kerkorian è l’incarnazione di questo sogno. Il trentunesimo uomo più ricco del mondo secondo Forbes nel 2007, il re di Las Vegas e il padre dei cosidetti Megaresort. Ha fatto la sua fortuna con i casinò e gli hotels. Statunitense di origine armena, proprietario ed AD della Tracinda Corporation, a sua volta proprietaria di quote di importanti società fra le quali la General Motors e la MGM Mirage. Non a caso negli anni ‘70 la Metro Goldwyn Mayer Mirage ha prodotto ‘Fuga di mezzanotte’: film di Alan Parker sulla brutalità della giustizia in Turchia . In Armenia, attraverso la Lincy Foundation, fra il 2001 ed il 2003 Kirk Kerkorian ha versato 165 milioni di dollari pari al 10% del bilancio annuale dello stato. Sovvenziona infrastrutture pubbliche ed imprese private oltre al più grande monumento della capitale. Inoltre il più grande museo della capitale raccoglierà le opere d’arte della collezione del magnate. L’Azerbaijan ha il petrolio, L’Armenia ha Kirk Kerkorian.
Yerevan. Non posso che esporre le mie sensazioni: mi sembra dunque che nella storia dell’ultimo secolo ebrei ed armeni hanno parecchie cose in comune. Un genocidio, un esodo, la sensazione di non essere capiti dal resto del mondo. Gli ebrei reagiscono con il senso dell’umorismo; gli armeni con la nostalgia. Qulla nostalgia di cui è impregnata la loro musica anche quando è allegra. Yerevan. Perdiamo l’aereo per Praga. Abbiamo aquistato il volo via internet ed nessuno ci ha comunicato che ci sarebbe stato spedito il biglietto stampato al nostro domicilio. Non esiste ebooking. Per tutta l’ultima giornata fogo la mia rabbia scattando foto alla gente di Yerevan sugli autobus. Oggi ringrazio di aver perso l’aereo. Dedico quindi il reportage a quei due impiegati dell’aeroporto che alle quattro di mattina si sono presi i miei violenti insulti perchè non mi lasciavano salire sul velivolo per tornare a casa.