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2007.
Yerevan. Forse è solo la mia percezione: i nasi e le orecchie sono
sproporzionatamente grossi. Come se gli armeni fossero delle caricature
viventi. Il primo impatto con tali nasche e padiglioni mi ha lasciato
interdetto; in un secondo momento ho iniziato ad intravedere
origini lontane e miscugli etnici vari: greci, mongoli, persiani, ottomani,
russi ed altro ancora che io non riesco a decifrare. I sorrisi sono
sovente pieni di denti d’oro, l’eleganza è quella che noi consideriamo
‘moda da ganster’ e le panze sono spesso immense. Gli uomini si atteggiano
a veri machos, le donne copiano spietatamente la nuova
musa mondiale, Paris Hilton. Secondo i miei limitati codici estetici è
tutto talmente esagerato che non riesco a trattenermi: mi innamoro!
Yerevan. Il ricco e vicino occidente viene riprodotto in ogni angolo
della città. Se si parla di tecnologia i nomi devono sembrare tedeschi;
se si tratta di moda bisogna raddoppiare qualche consonante perchè
sembri italiana; se si recita la parte del globaltrotter è indispensabile
avere un marcato accento americano e mescolare parole di diverse
provenienze linguistiche. Tutto il mondo è paese.
Yerevan. Ci si alza la mattina guardando il monte Ararat, 5126 mt di
altezza sul livello del mare. La leggenda vuole che sia la montagna
dove si è arenata l’arca di Noè dopo il nubifragio. È il simbolo nazionale
anche se oggi si trova in territorio turco. Il filo spinato evita
contatti fra i due paesi: non c’è frontiera. Ufficialmente non esiste
alcun problema fra i due vicini. Nessun contatto, nessun problema.
‘Un turco può essere simpatico, ma in gruppo diventano pericolosi
come un branco di lupi’ quest’uomo che mi sta difronte è il primo
che parla chiaro. Da quando sono entrato in Caucaso ho una strana
sensazione: nessuno parla apertamente male dei propri vicini, nessuno
mi dice esplicitamente quello che pensa, ma, mia sensazione,
esiste un vero astio verso i confinanti. Effettivamente la situazione
politico-economica della regione è tutt’altro che tranquilla. Le risorse
economiche non ancora sfruttate, gli oleodotti, la crescente importanza
strategica per la vicinanza con l’Asia centrale e le diverse religioni
ne fanno una ‘zona calda’ del globo a cui sono interessate le
due storiche potenze mondiali del secolo passato. Gli Stati Uniti appoggiano
l’Azerbaijan, la Turchia e la Georgia; la Russia supporta
l’Armenia, l’Iran ed il Turkmenistan. La tensione si percepisce ogni
volta che il tema cade sui vicini.
Yerevan. L’ospitalità è totale: noi due italiani dormiamo in salotto e
siamo serviti come dei principi. Personalmente mi risulta quasi imbarazzante:
‘è troppo, come potrò mai ricambiare?’ L’unica cosa da fare
per non sgradire è entrare definitivamente nel ruolo del principe.
Anche agli occhi delle ragazze della capitale siamo dei principi arrivati
da lontano: loro ci fanno gli occhi dolci e noi paghiamo il conto
al ristorante.
Yerevan. Lo stermino degli armeni da parte dei turchi ed il conseguente
esodo è argomento complicato e difficile. Sono passati quasi
cent’anni, eppure è una questione irrisolta che genera molta tensione
in tutti coloro a cui propongo di parlarne. Rabbia, odio, nostalgia, tristezza ed impotenza: i loro occhi mi dicono più delle parole. Le
stesse sensazioni che provo sedendomi fra le mura del monumento
al genocidio. Silenzio interiore. Parole in Armenia e nel mondo per ricordare
quella tragedia che fu; parole in Turchia che negano quel
massacro. Solo Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, ha riconosciuto
il genocidio armeno e curdo: 1.000.000 di armeni e
30.000 curdi. A causa di questa dichiarazione rilasciata ad una rivista
svizzera nel 2005 lo scrittore turco è stato inquisito con l’accusa di
offesa alla turchità.
Yerevan. Negli occhi degli anziani leggo nostalgia e rassegnazione.
Penso non sia stato facile il secolo passato: il genocidio, l’esodo, il
sogno comunista infranto e l’abbandono della Russia, il terremoto
degli anni ‘90 e la povertà. Nelle pupille dei più giovani leggo una
nuova grande Armenia proiettata nel futuro grazie all’unione degli
armeni del Caucaso con i figli dell’esodo. La mia sensazione è che si
sogni ad occhi aperti un ritorno in patria di tutti gli armeni dispersi
nel mondo dal genocidio turco. Una nuova Armenia occidentale e
capitalista. Kirk Kerkorian è l’incarnazione di questo sogno. Il trentunesimo
uomo più ricco del mondo secondo Forbes nel 2007, il re di
Las Vegas e il padre dei cosidetti Megaresort. Ha fatto la sua fortuna
con i casinò e gli hotels. Statunitense di origine armena, proprietario
ed AD della Tracinda Corporation, a sua volta proprietaria di quote di
importanti società fra le quali la General Motors e la MGM Mirage.
Non a caso negli anni ‘70 la Metro Goldwyn Mayer Mirage ha prodotto
‘Fuga di mezzanotte’: film di Alan Parker sulla brutalità della
giustizia in Turchia . In Armenia, attraverso la Lincy Foundation, fra il
2001 ed il 2003 Kirk Kerkorian ha versato 165 milioni di dollari pari
al 10% del bilancio annuale dello stato. Sovvenziona infrastrutture
pubbliche ed imprese private oltre al più grande monumento della
capitale. Inoltre il più grande museo della capitale raccoglierà le opere d’arte
della collezione del magnate. L’Azerbaijan ha il petrolio, L’Armenia ha
Kirk Kerkorian.
Yerevan. Non posso che esporre le mie sensazioni: mi sembra dunque
che nella storia dell’ultimo secolo ebrei ed armeni hanno parecchie
cose in comune. Un genocidio, un esodo, la sensazione di non essere
capiti dal resto del mondo. Gli ebrei reagiscono con il senso dell’umorismo;
gli armeni con la nostalgia. Qulla nostalgia di cui è impregnata
la loro musica anche quando è allegra.
Yerevan. Perdiamo l’aereo per Praga. Abbiamo aquistato il volo via
internet ed nessuno ci ha comunicato che ci sarebbe stato spedito il
biglietto stampato al nostro domicilio. Non esiste ebooking. Per tutta
l’ultima giornata fogo la mia rabbia scattando foto alla gente di Yerevan
sugli autobus. Oggi ringrazio di aver perso l’aereo. Dedico
quindi il reportage a quei due impiegati dell’aeroporto che alle quattro
di mattina si sono presi i miei violenti insulti perchè non mi lasciavano
salire sul velivolo per tornare a casa.
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