andrea boffetta
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Adoro viaggiare. Odio incrociare masse di turisti che si dirigono a fotografare le stesse icone cittadine già stampate sulle cartoline. Il mio scopo quando viaggio è quello di perdermi, di non sapere dove sono per scoprire il mondo a modo mio. Fotografo ad istinto ciò che mi colpisce.

Stockholm, 2011.

Da sempre ho preferito le bionde alle more. Sul mar ligure, aimè un tempo, scendevano a luglio le valchirie del nord; imbambolato con il gelato che divetava acqua io rimanevo ipnotizato da cotanta bellezza. In ogni sogno la donna che mi stava al fianco era sempre un altissima femmina dai capelli d’oro. Alla fine dei tre anni d’asilo tutti i genitori acquistarono la foto del proprio figlio durante la recita finale; io mi disperai assai, finchè mia madre, un po’perplessa, non comprò la foto della bambina bionda che interpretava la bella addormentata nel bosco. Il primo grande Amore adolescenziale fu la bionda compagna di classe che tutti credevano discendere da genitori scandinavi. La visualizzazione della vecchiaia era un po’ stereotipata: la poltrona rossa, il camino marrone ed i numerosi nipoti dai capelli chiari. Le destinazioni del mio unico interail furono i paesi del nord, che io sempre trovai caldissimi. Era tale l’eccitamento che mi immobilizzavo e quietavo la mia, normalmente molto attiva, lingua. Una razza suoperiore con cui avrei voluto accoppiarmi, per amore dei miei discendenti s’intende. Ebbene si, sono un italiano medio, con enormi complessi di inferiorità verso le donne svedesi. Ed è proprio perchè i miei discendenti non soffrano più a causa di questi traumi che sono per l’imbastardimento della razza. Questa è la prima immediata e stereotipata reazione all’arrivo. È un immagine, non è reale. È un immagine che ho costruito nella mia testa quand’ero piccolo e che ancora oggi, evidentemente, fa presa su di me. La fata bionda, bella e perfetta, che mi regalerà la felicità. È una menzogna che mi sto raccontando da solo. A Stoccolma divento consapevole di quest’immagine illusoria a cui sono legato da così lungo tempo, ma non riesco ad andare oltre. Per un reportage normalmente vivo almeno tre giorni in solitudine per perdermi e sentire istintivamente una città che non conosco. A Stoccolma ho solo ventiquattro ore e di fatto non riesco a perdermi perchè giro solo in un unico quartere, Sodermalm. Inoltre non sono solo. In una sola giornata non riesco ad entrare nello spirito della città, non ho il tempo di cambiare i miei registri mentali, di disfarmi dei paragoni istintivi e del mio ego. Dunque per non rimanere bloccato mi invento uno stratagemma: un reportge fotografico sulla grafica che mi si presenta davanti lungo le strade di Sodermalm, il quartire “vivo” della capitale. La grafica, mio secondo grande Amore, salvazza dei miei studi, fonte economica di sostentamento per lunghi anni, a queste latitudini è di altissimo livello grazie ad una lunga tradizione e ad una cultura della progettualità molto diffusa. Fotografo solo ciò che incrocio lungo le mie strade.