andrea boffetta
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Adoro viaggiare. Odio incrociare masse di turisti che si dirigono a fotografare le stesse icone cittadine già stampate sulle cartoline. Il mio scopo quando viaggio è quello di perdermi, di non sapere dove sono per scoprire il mondo a modo mio. Fotografo ad istinto ciò che mi colpisce.

Torino, 2006.

Torino. Mai avrei pensato di tornare. I miei sentimenti rispetto alla città erano sempre estremi: piangevo di rabbia o d’amore. Piangevo sempre. Soffrivo troppo. Me ne andai felice, ma con le lacrime agli occhi. Due sentimenti estremi e contrari, che solo ora riconosco come due facce della stessa medaglia. Odiavo il torinese falso e cortese, che non è capace di dirti in faccia ciò che pensa, di chiederti ciò di cui ha bisogno o di farti sentire il suo entusiasmo quando è felice. Per chiederti di chiudere la finestra a Torino ti dicevano: ‘Fa fresco oggi, vero?’. Nei dialoghi quotidiani ogni volta bisognava capire fra le righe che cosa intendeva dire chi avevi difronte. Odiavo i falsi sorrisi e le frasi di circostanza. Odiavo il formalismo di una città che nelle relazioni interpersonali sembrava essersi fermata agli inizi del ‘900. Odiavo le insicurezze ed i complessi creati da un etichetta di comportamento troppo rigida basata sulle prescrizioni delle forme nelle quali ogni cosa deve essere fatta. Odiavo le divisioni in gruppi chiusi impermeabili a tutto ciò che non fosse collegato ai soliti quattro amici di tutta la vita dei miei concittadini. Odiavo la falsa riservatezza e i pettegolezzi. Odiavo l’invidia per il vicino, odiavo la mancanza di entusiamo, la pacatezza e la mancanza di sogni ad occhi aperti dei torinesi. Odiavo quella grossa città che si comportava come un paese, che non capiva i propri potenziali e non aveva voglia di trasformarsi, di farsi bella, di farsi vedere. Odiavo la mia città e non mi sentivo realmente accettato da nessuno dei gruppi che frequentavo. Amavo quei giorni di vento in cui la città è limpida; amavo i parchi cittadini; amavo perdermi nei boschi della collina a piedi, in bici, in moto; amavo, all’epoca senza saperlo, quell’intimità con se stessi che i silenzi della città mi regalava. Amavo il jazz ed i suoi piccoli e informali club. Amavo il Po e le vicine montagne. Amavo il barocco piemontese. Amavo il rito del the nei freddi pomeriggi d’inverno. Amavo la cultura della mia città: cinema, teatri e musica. Amavo i folli torinesi: quella serie di personaggi strani che esistono in questa città. Amavo la intima spiritualità dei torinesi. Amavo i miei barboni, che all’epoca reputavo dei veri saggi. A diciotto anni fuggì altrove felice. A trent’anni tornai controvoglia. Oggi, due anni dopo il mio ritorno forzato, sono felice di essere qui. La città indubbiamente è cambiata, ma ha mantenuto le caratteristiche che la contraddistinguono. Personalmente ho scoperto che tutti i difetti che odiavo della mia città natale non sono altro che i miei difetti: dunque non c’è posto migliore dove poetessi guarire i miei mali. Tutte le volte che posso giro per le vie cercando di perdermi per farmi sorprendere dalla città. Faccio il turista nella città in cui vivo e fotografo ciò che istintivamente mi attira. Credevo di conoscere il luogo dove vivo ed invece ho scoperto di conoscerne solo una piccola parte.